Los Angeles, città moderna e caotica, riserva molte sorprese a chi abbia voglia di farsi incantare. Come, ad esempio, la Union Station, discreta e affascinante, che grazie ad un sapiente restauro è tornata ad essere un salotto di rara bellezza.
Nell’immaginario collettivo, Los Angeles è una città tentacolare e piena di traffico, moderna e con tante anime diverse. Niente di più vero, non fosse altro per le sue dimensioni, che sono difficilmente comprensibili per chi abita in Europa, dove quasi tutto è a misura d’uomo. La stessa Downtown è difficilmente catalogabile, con i suoi grattacieli e le sue strade semi-deserte. Qua è là ci sono edifici imperdibili, come la Walt Disney Concert Hall, ma trovare un’anima pulsante è piuttosto complicato. Almeno lo è sempre stato per me, che amo la storia e l’architettura perché indissolubilmente legate al fattore umano.
Solo entrando nella Union Station ho dovuto rivedere le mie impressioni, perché, per quanto piccola e non di certo paragonabile a quella meraviglia che è la Grand Central Station di New York, la stazione ferroviaria di Los Angeles è un gioiello autentico. Ha un fascino discreto, che si svela poco a poco a chi lascia la turistica Olvera Street e si dirige verso un edificio bianco dalle forme semplici, che da lontano potrebbe quasi sembrare una chiesa. E’ difficile definirne lo stile: ci sono elementi Art Déco, altri di ascendenza coloniale e altri ancora che ricordano le misiones del Camino Real. Il sito ufficiale della Union Station definisce tutto ciò “Mission Modern”. E’ un etichetta, certo, che però ricomprende un piccolo universo.
La Union Station fu inaugurata nel 1939 alla presenza di mezzo milione di persone. Fu definita “l’ultima delle grandi stazioni” perché fu quella l’ultima volta in cui negli Stati Uniti si pensò al trasporto su rotaia come un’ottima possibilità offerta ai passeggeri per spostarsi. Già con gli anni Cinquanta, infatti, molti americani cominciarono a trovare più comodi l’automobile e l’aereo, condannando la bellissima stazione a una lenta decadenza. Inserita nel Registro Nazionale dei Luoghi Storici nel 1980, la stazione fu acquisita nel 2011 dalla società di trasporti di L.A., che subito decise per un totale rinnovamento. Due anni di lavoro, conclusi nel 2015, hanno riconsegnato il gioiello alla città.
Se all’esterno l’edificio è bianco ed essenziale, all’interno i dettagli sono stupefacenti: lampadari scintillanti, porte incorniciate da volute in stucco, maioliche variopinte alle pareti, sportelli della biglietteria decorati in ottone… La sala centrale è lunga qualche decina di metri, ma ci si passerebbe volentieri qualche ora per catturare ogni particolare. Le poltrone in pelle della sala di aspetto, poi, dimostrano il rispetto che con il quale la Union Station è stata restaurata. Non sono certa che siano le stesse dell’epoca di apertura, ma sono identiche. Tutt’altra cosa rispetto alle tristi sedie di metallo che normalmente si vedono nei luoghi pubblici! Ci si può accomodare solo se muniti di biglietto ferroviario, il che mi pare un giusto compromesso.
Notevole è pure la corte esterna, una sorta di patio inondato dalla luce e ingentilito da una fontana zampillante. Uno spazio adatto a un momento di relax così come alla pausa pranzo, visto che ci sono tavolini e sedie che possono essere utilizzati da chiunque. La città brulicante è a pochi metri, ma sembra di essere in un’oasi di pace (e le palme tutte intorno acuiscono di certo quest’impressione). Peraltro, anche all’interno è possibile organizzarsi per un pranzo veloce, visto che non mancano ristoranti e caffè. Curiosamente i fast-food sono sapientemente messi in secondo piano (oserei dire nascosti) a favore di un paio di locali più tradizionali e dal gusto europeo.
Ma ciò che più di ogni altra cosa che mi ha colpito entrando è stata la musica. Le note provenivano da un pianoforte e ho subito pensato ad un impianto di filodiffusione. Nulla di più sbagliato: in fondo alla sala d’aspetto è posizionato un piano e chiunque può suonare. Ci sono solo due regole da rispettare: la performance di ciascuno non può durare più di 20 minuti e non si possono chiedere mance. Nella mia breve permanenza ho ascoltato due diversi esecutori; non so dire se fossero bravi o meno, ma qualcosa di loro mi ha colpito. Erano persone dimesse, di quelle che in un’America che va veloce non ce l’hanno fatta o ce l’hanno fatta appena. Eppure suonavano bene, dimostrando una competenza che io non ho di certo. Ed erano sereni in quel momento.
Un insigne musicista soleva ripetere che “la bellezza salverà il mondo; uno alla volta”. E mai come in quel momento questo mi è sembrato possibile.