Mai avrei pensato di avere il “coraggio” di scrivere del Muro di Berlino. Per pudore e rispetto. Non credo che quel che ne avanza sia una meta turistica e neppure penso che basta averlo visto molte volte per riuscire a comprendere tutta la storia che c’è dietro. Oggi, 9 novembre, scrivo solo per ricordare che quello sfregio non c’è più.
L’ho già ricordato altrove: per me Berlino rappresenta la possibilità di camminare nella Storia. Avevo 9 anni quando il Muro è crollato e le immagini dei telegiornali sono impresse in maniera indelebile nella mia memoria. Perché, guardando quei fotogrammi, per la prima volta nella mia vita ho percepito di stare assistendo a qualcosa di grande. In definitiva, però, io il Muro di Berlino nella sua interezza non l’ho mai visto.
Eppure in tutti questi anni ho continuato a ricercare informazioni e vecchi film, a leggere e a documentarmi. Per curiosità, certo. Ma soprattutto perché quella separazione era una cosa talmente innaturale e crudele da suscitare in me il desiderio di sapere. Per non dimenticare e per non banalizzare. Sì, perché, a causa del mio lavoro, del Muro di Berlino mi è toccato parlare in innumerevoli occasioni. E, ancor di più, ogni viaggio nella capitale tedesca (e non conto più quante volte ci sono stata) ha avuto qualche mezz’ora dedicata alla visita di quanto ne resta. E il toccar con mano, lo scattare foto e selfie, anche l’ascoltare di come e quando il Muro fu costruito espone a un grosso rischio: quello di scambiare la nostra percezione di uomini liberi e moderni con la realtà dei fatti di allora. C’è uno scarto temporale, emotivo e tecnologico difficile da comprendere. Bisogna prendersi tempo e silenzio per andare al di là di un altro muro, quello dei nostri pre-giudizi.
E’ per questo che non amo andare presso la cosiddetta East Side Gallery, a meno che lo scopo della visita non sia meramente artistico. Si tratta di una porzione di Muro, lunga circa 1,3 km, sulla cui parete orientale artisti e writer hanno creato murales liberamente ispirati alla storia della divisione e alle aspettative connesse alla caduta del Muro. Molti dei 105 dipinti hanno una notevole forza evocativa e sono diventati delle autentiche icone, tanto da indurre il Parlamento della Città di Berlino a proteggerli attraverso una fondazione. Il bacio fra Honecker e Breznev del russo Dmitri Vrubel (dall’inquietante titolo Mio Dio aiutami a sopravvivere a questo amore mortale), la Trabant che sfonda il Muro, la massa di persone stilizzate che, come un’onda, infrangono la barriera, le teste dell’antesignano Thierry Noir… tante sarebbero le immagini da menzionare e da guardare con attenzione.
Purtroppo, però, credo che solo degli esperti in meditazione riescano a mantenere viva quell’attenzione. Perché, di fatto, si scattano foto, si aspetta il momento giusto per posare di fronte all’obiettivo, si posta tutto sui social e la storia finisce lì. C’è troppa confusione. E troppi colori. Il che, intendiamoci, non è necessariamente un male. Per fortuna ora siamo liberi di avere murales là dove un tempo nessuno poteva avvicinarsi. E per fortuna non abbiamo bisogno di visti e check-point per arrivare a Berlino Est. Di sicuro in questo senso anche la East Side Gallery può indurre alla riflessione. A patto di volerla fare. A me rimane sempre il dubbio che per la gran parte dei visitatori quella porzione di Muro sia tanto quanto la Tour Eiffel o il Colosseo: una sorta di “veni, vidi, vici” coniugato secondo il gusto contemporaneo.
Così, quando mi capita, consiglio sempre di andare in Bernauer Straße per visitare il Gedenkstätte Berliner Mauer. Tradotto: il Memoriale del Muro di Berlino. Qui una porzione dei blocchi di cemento è rimasta com’era. E ancora si possono vedere la “terra di nessuno”, le torri di guardia e gran parte dell’apparato tirato in piedi a partire dall’11 agosto 1961. Lungo la striscia di divisione fra Est e Ovest è stato costruito un parco e, seguendo un invisibile filo di ricordi e documenti, si può immaginare quello che non c’è più. Alcune facciate delle case dell’ex settore sovietico sono state dipinte con le foto che all’epoca avevano fatto il giro del mondo, come quella che immortalava chi saltava dalla finestra per raggiungere la parte occidentale. Quell’episodio è accaduto proprio lì, dove adesso c’è solamente una gigantografia.
Esiste poi anche uno spazio espositivo, che trovo ben fatto. Oltre alla torre panoramica che consente di vedere dall’alto la sezione intera del Muro, è interessante per i filmati e le testimonianze che vi si trovano. Per chi, come me, quella pagina di Storia non l’ha vissuta è un modo diretto ma sobrio per addentrarsi in un capitolo così complesso del XX secolo.
Lì vicino c’è pure la vecchia stazione della metropolitana denominata Nordbahnhof. Ai tempi della DDR era una stazione fantasma, di quelle cioè dove i convogli della U-Bahn, utilizzati esclusivamente dai cittadini dell’Ovest, non potevano fermarsi. Il reticolo della metropolitana era infatti precedente alla divisione della città e rendere inaccessibili le stazioni impediva a chi era ad Est di fuggire dall’altra parte utilizzando i treni sotterranei. Quasi tutto è rimasto come allora e, ogni volta che ci entro, un senso di desolazione mi assale. Lo stesso che provo al cospetto del Tränenpalast (Palazzo delle Lacrime), là dove gli abitanti di Berlino Est salutavano i parenti e gli amici che tornavano ad Ovest dopo una fugace visita o che lasciavano il settore sovietico per sempre.
Tante volte, in quest’anno infausto, mi è capitato di tornare con la mente a Berlino. Per affetto, senz’altro. Ma anche perché il nostro confinamento, la fatica che proviamo di fronte alle restrizioni sociali, il fastidio per essere separati momentaneamente dai nostri cari mi hanno fatto pensare spesso a quelle famiglie spezzate nell’arco di una notte. Famiglie a cui è stata tolta quasi del tutto la possibilità di avere notizie dei propri cari, di vederli o di sentire la loro voce. Non si può, da nessun punto di vista, costruire un parallelo fra la situazione odierna e quella dell’epoca. Però rievocare quei luoghi mi fa riflettere sul fatto che, a volte, nella nostra testa i muri ce li costruiamo da soli.
E’ per questo motivo che consiglio a tutti di accostarsi al concetto “Muro di Berlino” con la delicatezza, l’attenzione e la cura che merita. Per rispetto delle tante vite coinvolte. E per rispetto di sé. Perché certo fare una foto col finto soldato di Check-point Charlie può essere divertente, senza però scordarsi di andare al di là del muro. Quello della nostra superficialità.