La chiesa di Sant’Antonio alla Motta è una delle più amate di Varese. Porta con sé una storia millenaria e antichissime tradizioni. Non per nulla ancora oggi la festa del santo protettore degli animali è un evento da non perdere.
Una delle chiese più amate di Varese è senz’altro quella di Sant’Antonio abate, detta anche “della Motta”. Nel dialetto locale “motta” significa “collina” e, in effetti, l’edificio si trova su una piccola altura a pochi passi dal centro storico.
Costruita per una confraternita, il luogo di culto fu completamente ripensato da Giuseppe Bernasconi, l’archistar del Seicento a Varese. Nel Settecento, poi, gli interni furono corredati da preziosi affreschi ad opera di Giuseppe Baroffio e Giovan Battista Ronchelli. Glorie locali senza dubbio, che però qui lasciarono una testimonianza più che notevole del periodo artistico che va sotto il nome di Barocchetto.
Sorprendente è la zona del coro, un’autentica quinta teatrale che si apre a mostrare finte architetture e tenui paesaggi di sfondo, così ben fatti da dare l’impressione che la chiesa sia più ampia e più ariosa di quanto non risulti nella realtà. Altrettanto bella è la volta, con la Gloria di Sant’Antonio del Ronchelli, che in una certa misura ricorda la lezione romana di Andrea Pozzo o del Baciccia. Certo nell’Urbe la grandiosità e lo stupore sono moltiplicati all’infinito, ma questi affreschi sono la dimostrazione di come anche a Varese arrivarono gli echi delle prodezze di grandi maestri.
Il motivo per cui la cittadinanza ama da sempre la Motta è però forse da ricercarsi più all’esterno della chiesa: il mercato del pesce e della verdura è attestato sin dall’XI secolo. In quell’occasione arrivava pure il giudice del contado del Seprio per amministrare la giustizia. Qui, dunque, ci si incontrava e si mercanteggiava. Qui si entrava nel borgo attraverso una delle porte cittadine. Qui si veniva a votarsi al Santo taumaturgo, tanto importante là dove l’agricoltura e l’allevamento del bestiame rappresentavano il mezzo primario di sostentamento.
E se, oggigiorno, il mercato non si tiene più in piazza della Motta, è pur vero che nel mese di gennaio i varesini non si dimenticano del Santo eremita, portando gli animali a far benedire e accendendo un grande falò. Retaggio, quest’ultimo, di antichi riti pagani, ma anche modo per ingraziarsi la benevolenza di sant’Antonio e per riscaldare una sera tendenzialmente fredda come può essere quella del 16 gennaio. Sulla pira si lasciano bigliettini nella speranza di trovar marito o di ottenere una grazia. Ma soprattutto, attorno al fuoco, si ritrova lo spirito di un tempo. Non importa se ci si conosca o meno, ma, almeno per qualche ora, tutti si ritrovano lì a guardare in un’unica direzione, perpetrando una tradizione che affonda nella notte dei tempi. Senza chiedersi il perché o senza aver bisogno di più moderni passatempi.