Alla ricerca di un gioiello che non c’è più. Là dove ora sorge la stazione Como San Giovanni, vi era un tempo un ricco monastero, vanto della città e della famiglia domenicana.
Se vi dovesse capitare di recarvi a Como in treno, con buona probabilità arrivereste alla stazione di Como San Giovanni. E, se vi venisse curiosità riguardo al nome dello scalo, i meglio informati potrebbero spiegarvi che lì, un tempo, esisteva un convento dedicato proprio al Santo. Un monastero che doveva essere un gioiello e di cui oggi, purtroppo, sopravvive solo il nome. Forse, però, destreggiandosi nella città lariana e nella regione, qualcosa si può ancora immaginare…
Un po’ di storia per cominciare
La storia del monastero di San Giovanni Pedemonte inizia nel più classico dei modi. Siamo nel XIII secolo e gli ordini mendicanti diventano una presenza fissa in molte città europee. Non però dentro alle mura, ma all’esterno, magari appena a ridosso, per poter dare aiuto a pellegrini e mendicanti. A Como i domenicani scelgono di attestarsi in una proprietà benedettina, fra il lago e il monte, là dove passa l’antica Strada Regina, che sin dall’epoca romana era stata una delle arterie più importanti d’Europa. Da qui l’aggettivo “pedemonte”. E San Giovanni? Battista o Evangelista? Per non sbagliare i Predicatori (ché questo sarebbe il nome ufficiale dell’ordine) si affidano a entrambi…

La comunità prospera, non solo per via della posizione “strategica”, ma anche grazie alla particolare missione dei padri. Certo si chiamano domenicani per via del fondatore, Domenico di Guzman, ma anche perché sono i “domini-cani”, le guardie di Dio. A loro, infatti, si affidano gran parte degli uffici della Santa Inquisizione. E Como non fa eccezione. Il continuo antidirivieni di mercanti e viandanti consente, infatti, non solo un forte afflusso di merci, ma anche di idee, non sempre ortodosse. Succede con il Catarismo, così come con la Riforma protestante. Como è al confine fra due mondi e il tribunale ecclesiastico deve difendere la Chiesa e farne da baluardo.
E per essere monito, anche visivo, niente di meglio che una posizione elevata e visibile. Tanto più se si pensa in grande e si realizza un monastero che di certo non deve passare inosservato… Una chiesa e addirittura tre chiostri. Osservando la foto scelta per la copertina, forse non riconoscerete i chiostri, ma la mole del monastero vi risulterà più che evidente.
Il monastero di San Giovanni
Partiamo dalla chiesa. Data la conformazione scoscesa del territorio, il tempio, di dimensioni tutt’altro che modeste, è costruito in una maniera un po’ bizzarra (almeno per noi). La facciata risulta quasi invisibile, addossata com’è alla montagna. Ed è per questo che, mentre la navata di sinistra ha sei cappelle, quella di destra ne ha solo cinque: da qualche parte l’ingresso bisogna pur metterlo. A noi sembra poco logico, ma un senso c’è eccome: nel Medio Evo, ricco di simbologie, le chiese devono essere orientate, devono cioè guardare ad Est. Poco importa se poi, per entrarvi, ci si debba calare dal tetto. Ovviamente esagero, ma il senso è quello.
Accanto alla chiesa, come dicevo, un complesso sistema di edifici si dispiega su tre chiostri. C’è così spazio per gli uffici dell’Inquisizione, per la vita comunitaria e per le zone adibite ai monaci. Non mancano né la sala del capitolo né una grandiosa e fornita libreria. A San Giovanni si trovano pure le reliquie da venerare e oggetti considerati prodigiosi, quali un pozzo dall’acqua miracolosa e un albero, pare un agnocasto, piantato da san Pietro Martire.
Prometto che prima o poi vi parlerò anche di costui; per ora accontentatevi di sapere che Pietro è un inquisitore veronese che a più riprese, vivendo a Sant’Eustorgio a Milano, ha visitato il convento domenicano. Durante una delle sue passeggiate da Como a Milano (o viceversa, le fonti sono discordi), qualcuno, poco contento del suo operato, lo uccide in un agguato. Pietro diventa immediatamente santo e quanto a lui collegabile, finanche un umile arbusto, diventa degno di venerazione.
E’ chiaro che un luogo così in vista non possa non interessare alle potenti famiglie locali, che iniziano ben presto ad accaparrarsi le cappelle laterali per farle decorare a loro piacimento. Inizia così un’intensa stagione artistica che si protrae sino all’epoca barocca. Artisti di primaria grandezza quali i fratelli Recchi, il Morazzone e addirittura Andrea Pozzo (il mio preferito, chiamato dagli Odescalchi) sono assoldati per dare lustro alla Como che conta. E’ difficile immaginarsi la chiesa di San Giovanni, visto che pochissimo si sa dell’altar maggiore e della navata centrale. Ma le cappelle devono essere un tripudio di sculture, pitture (affreschi e tele) e stucchi.
Come finisce la storia?
La storia di San Giovanni Pedemonte, l’avrete capito, finisce male, anzi malissimo. Gli Austriaci, con Giuseppe II, eliminano l’Inquisizione. E questo sarebbe niente, visto che il monastero sfugge alla secolarizzazione. Finché nel 1810, in epoca napoleonica, il convento non è soppresso. Diventa prima ospizio per i poveri, poi è venduto a privati e, infine, viene smontato pezzo a pezzo. I comaschi utilizzano l’immenso edificio come una sorta di cava, dove recuperare a buon prezzo materiale edile. La ferrovia arriverà solo nella seconda metà del XIX e, almeno, si decide di chiamare la stazione così come quella zona si è chimata per secoli: Como San Giovanni.
Quindi del monastero non resta altro che il nome? Non proprio… L’edificio non c’è più, gran parte dell’archivio dell’Inquisizione è andato perso, così come la ricca biblioteca. Per fortuna qualche opera che adornava la chiesa si è salvata e, cercando con attenzione, ancora la si può ammirare. Dove? Ora ve lo spiego!
La caccia al tesoro…
Arrivati alla stazione di Como San Giovanni, procediamo verso la città murata. La prima tappa è la basilica dell’Annunciata, dove ci attende un dipinto. Si tratta di una copia di un’opera di Tiziano, L’uccisione di san Pietro Martire. Viene dal convento che ora è una stazione. Non trovate il quadro? Sì, avete ragione… l’hanno spostato! Ora si trova presso la Pinacoteca Civica, ma siccome la basilica vale una deviazione, non ho resistito a citarne anche la vecchia collocazione.
Procediamo dunque verso la Pinacoteca Civica. Al primo piano, possiamo ammirare i due quadroni a mezzaluna realizzati dal Morazzone e da Pierfrancesco Nuvolone. Il primo rappresenta la Caduta degli angeli ribelli, il secondo San Michele trionfante. Se, dal punto di vista cronologico, fra la realizzazione delle due tele passa circa un quarto di secolo, con inevitabile mutamento del gusto e dello stile, è d’altra parte palese la grandiosità (anche in termini di dimensioni) di entrambe. Ed entrambe erano state commissionate dai Gallio, famiglia fra le più in vista, per decorare solamente la cappella che si erano scelti, ricca, a quanto si sa, di stucchi e dorature.
Il punto è proprio questo: la Pinacoteca conserva alcune pregevoli opere pervenute dalla chiesa di San Giovanni; immaginarle nel loro insieme, purtroppo, è molto difficile. Ma se quanto è sopravvissuto è così bello e maestoso, forse almeno possiamo farci un’idea di quanto la chiesa dei Domenicani dovesse essere ricca. Anche perché, di famiglie VIP a Como ce ne sono parecchie fra XVI e XVII secolo e la gara a far di più e meglio è una delle attività favorite. Di certo le sponde del lago sono perfette per mostrare fantasia, potere e danaro; altrettanto indubitabilmente San Giovanni si presta a teatro parimenti adatto per affermare il prestigio sociale ed economico.
Ma procediamo… usciti dal museo (a proposito, già che ci siamo possiamo dare un’occhiata alla Collezione Gioviana, che male non fa), possiamo incamminarci verso il Duomo. La Cattedrale, infatti, conserva un’altro piccolo capolavoro. Si tratta di una bella statua rappresentante Sant’Isidoro, superstite della cappella Odescalchi. Cappella che raggiunge il suo splendore proprio quando, a Roma, il papa è proprio un Odescalchi. Giusto per dire che, per certo, non si badava a spese, benché Innocenzo XI venga soprannominato in Curia il “papa minga” per via della sua oculatezza… sia come sia l’Isidoro agricoltore della Cattedrale è proprio bello, ritratto in estatica contemplazione ma affiancato da buoi mansueti… come a ricordare che le cose celesti e quelle mondane non possono andare disgiunte, sebbene le prime debbano prevalere. Se trovate la statua, perché effettivamente è un po’ nascosta, ammirate le vesti, leggere e svolazzanti, mosse dal vento e (perché no?) dallo Spirito.
La caccia al tesoro non termina qui! Perché, mentre rientriamo a Como San Giovanni, possiamo dare un’occhiata anche al
Quindi abbiamo finito? In realtà no, perché se abbiamo voglia di prendere il treno, attraversando un lembo di Canton Ticino, possiamo raggiungere Arcisate. Già il battistero varrebbe la visita di questo borgo della Valceresio, ma per la nostra ricerca dobbiamo, ancora una volta, varcare la soglia di una chiesa. Nella seconda cappella di destra della parrocchiale, infatti, è l’altare della cappella Odescalchi. Gli angeli, in marmo bianco, non hanno più il bronzo che copriva loro le ali, così come sant’Isidoro (quello ora in Cattedrale), protagonista della scena, non ha più fra le mani una spiga d’oro. Però facciamo ancora uno sforzo di fantasia: mettiamo il santo spagnolo al suo posto, al centro dell’altare e immaginiamo la luce che accarezza i marmi e le forme ardite, si riflette sui metalli e sulle dorature degli stucchi e delle statue. Possiamo immaginare niente di più sontuosamente barocco?
La scoperta continua
Se vi siete appassionati a questa ricerca itinerante, la ferrovia fra Italia e Svizzera potrebbe tornarvi utile anche per addentrarvi nell’alta valle del Ticino. Per vie misteriose che ancora non ho accertato, un bellissimo quadro dei fratelli Recchi, la Resurrezione di Lazzaro, è arrivato sino al piccolissimo abitato di Chiggiogna. La chiesa di Santa Maria Assunta è un gioiellino romanico, il cui interno offre opere d’arte notevoli. Io non sono ancora riuscita a visitarla, ma spero che un giorno, partendo da Como San Giovanni, un treno mi conduca fin lassù…