Il mio blog non può che partire da Varese, la mia città. Ve la presento per come io la vedo, la vivo e la amo. Perché, a dispetto della sua fama di città industriale e chiusa in sé stessa, la “città giardino” ha tanto da offrire.
Quando mi chiedono da dove vengo, di solito rispondo così: “Sono nata a Varese, vivo a Varese e probabilmente ci morirò pure. Giro il mondo e amo farlo, ma Varese è la mia città.”
Credo che questa foto spieghi tanto di Varese, anche se non è un’immagine iconica: la maggior parte dei miei concittadini avrebbe forse scelto una veduta del Sacro Monte o dei Giardini Estensi, che sono i luoghi più amati e conosciuti, o anche di corso Matteotti, che è la via dello shopping e dello “struscio”. Ma in quest’immagine si vedono tutti insieme gli elementi che mi rendono la città così cara e ora provo a spiegarveli con calma.
Innanzitutto, si vede un giardino e, in effetti, il soprannome di Varese è la “città giardino”. Ce ne sono molti, fra grandi e piccoli, pubblici e privati, ben tenuti o meno. Ovunque si vada si trova del verde; ci sono boschi, certo, e anche giardini urbani (pochi, a dire il vero), ma in particolare ci sono parchi secolari dove vivono alberi bellissimi e che raccontano la storia di quando la piccola Varese ospitava ricchi villeggianti venuti da Milano alla ricerca del fresco e della pace. Ogni giardino ha la sua forma, le sue curiosità, i suoi angoli segreti e i suoi panorami. E, fatto che amo particolarmente, anche negli ultimi anni diversi spazi verdi sono diventati pubblici. Ci si va a passeggiare, a leggere un libro o a giocare con i bambini. Sono luoghi di tutti e per tutti e nessun varesino saprebbe vivere senza.
Poi si vede dell’acqua, che qui è uno specchio perfetto. Magia dell’artista Meg Webster, che a Villa Panza ha lasciato un sogno ad occhi aperti. Pare che il nome della città derivi da una parola celtica che indicava l’acqua e, siccità degli ultimi anni a parte, a Varese l’acqua non fa difetto: un piccolo fiume, il Vellone, l’attraversa ormai nascosto dal manto stradale, un altro, l’Olona, ne lambisce il territorio, il lago è a meno di tre chilometri dal centro storico. E se non dovesse sembrare abbastanza, sappiate che in provincia di laghi se ne contano almeno altri sei. Non solo: a Varese piove(va) tanto. E, in effetti, l’opera di Webster dovrebbe alimentarsi con l’acqua piovana.
S’intuisce pure che ci troviamo su un colle. E anche i colli fanno parte del panorama varesino. Sono sette, come quelli di Roma, anche se non sono così famosi… Biumo Superiore, Giubiano, San Pedrino, Sant’Albino, Montalbano, Campigli e Miogni. Sinceramente sono così poco noti che anche i varesini hanno dei dubbi in proposito! D’altra parte, è indubbio che l’orizzonte sia modellato dai colli. A Varese né si vede la pianura sconfinata né lo sguardo rimane chiuso in una valle. E’ un giusto compromesso, che si traduce nel carattere di chi vi abita: si sentono i confini, ma non manca la voglia di oltrepassarli perché si percepisce che più lontano c’è ancora qualcosa da scoprire.
A modo suo, anche il luogo rappresentato nella foto rappresenta iconicamente la città. Villa Panza era privata, poi è stata donata al FAI, che da diversi anni l’ha resa accessibile a tutti. E’ un’isola di bellezza e di arte, che si disvela a poco a poco: non solo perché l’approccio con la collezione può essere problematico all’inizio, visto che vi si trovano opere contemporanee, ma anche perché la villa va cercata e raggiunta, e poi bisogna entrarci per lasciarsi meravigliare. Che è poi quanto accade con Varese: da tanti anni faccio la guida, quasi sempre i visitatori ci arrivano più per caso che per altro, ma poi si fanno conquistare e spesso tornano a trovarmi.
Ancora, in questa foto si sente il silenzio. Sempre più difficile trovarlo, ahimè, ma non impossibile. Siamo sospesi fra la voglia di essere grande città e l’attaccamento alla dimensione provinciale. Un equilibrio spesso difficile da mantenere, ma è un compromesso di cui non saprei fare a meno.