Attività adatta a tutta la famiglia, la caccia ai tartufi è, a mio parere, il modo migliore per godere di qualche ora all’aria aperta, immersi nella natura, e per scoprire qualcosa di insolito.
Che il Piemonte, ed in particolare la zona di Alba, sia terra di tartufi non è certamente una novità. Basta visitare le Langhe nella stagione tardo autunnale per averne riprova. Senza dimenticare le aste e i mercati organizzati da quelle parti. D’altra parte, è altrettanto noto che cercare tartufi è ben più complicato che andar per funghi e che i segreti della sua raccolta sono gelosamente custoditi e tramandati di generazione in generazione.
È vero, però, che negli ultimi anni, complice la fama che le Langhe hanno ottenuto, alcuni trifolau hanno deciso di condividere la loro passione con chi, come me, è curioso. Badate bene: condividere la passione non equivale a svelare i segreti. E ci mancherebbe altro, viste le cifre da capogiro a cui il tartufo bianco d’Alba è venduto ogni inverno! Ma vedere i cani in azione nei boschi è un’esperienza unica e divertente.
Facendo una breve ricerca on-line, troverete diverse offerte, all’apparenza tutte molto simili fra loro. C’è chi alla fine propone una degustazione, chi no, però è sempre incluso un giro nella tartufaia accompagnati dal cercatore di tartufi e dell’inseparabile cane. In diverse occasioni ho avuto il piacere di andare a caccia di tartufi e, ogni volta, ho trovato l’esperienza affascinante come se fosse la prima. Questo nonostante io non sia né particolarmente sportiva né una cinofila di prim’ordine. C’è però un dettaglio che mi emoziona parecchio e che fa la differenza: il legame indissolubile che i cercatori veri, i trifolau, appunto, hanno con la loro terra. Per questo talvolta andar per tartufi mi ha semplicemente divertito e, qualche altra, mi ha stregata.
Il mio “cacciatore” preferito si chiama Marco. È difficile spiegare perché, dal mio punto di vista, lui è speciale. Sicuramente apprezzo la passeggiata che propone, che è “vera” ma non improvvisata. Voglio dire: ci sono suoi concorrenti che risolvono la ricerca in 20 minuti di cammino, altri che danno l’impressione di essere un po’ spaesati e di non sapere bene come condurvi nel bosco, altri ancora che sono perfetti show-man e chiacchierano un sacco, ma senza mostrare la loro anima. Con Marco, invece, la competenza si sposa con una genuina simpatia. E sulla sua esperienza non si discute: se interrogato, racconta senza problemi che ha iniziato da bambino, quando accompagnava il nonno nei boschi. Una vita intera a caccia di tartufi, insomma.
L’altro elemento imprescindibile per una caccia ai tartufi è ovviamente il cane. Sono vivaci, mettono allegria e hanno un rapporto simbiotico con il trifolau. Per avere un buon cane da tartufo occorrono molti anni e grande capacità in fatto di allevamento. Naturalmente, aiuta molto la genealogia, nel senso che, molto spesso, da buoni cani da tartufo nascono esemplari altrettanto capaci. Ma poi servono pazienza e competenza, perché l’allenamento deve essere costante e iniziare molto presto. Bisogna imparare a conoscersi perché ogni cane ha la sua personalità e le sue caratteristiche, esattamente come gli esseri umani. Secondo Marco non esiste una razza particolarmente indicata, è proprio una questione di feeling.
Durante la ricerca, Marco si rivolge ai cani in piemontese. E già questo mi affascina. Potrebbe sembrare un fatto banale, ma a me riporta all’idea delle radici, culturali ma anche emotive. E quando finalmente il cane fiuta un tartufo e si mette a scavare, comincia la meraviglia. Bisogna conoscere il tempo esatto, come un maestro che dirige l’orchestra. Se si allontana il cane troppo presto, è difficile vedere subito il tartufo; se si indugia troppo, il rischio che il frutto sia rovinato dalle zampe è altissimo. E’ una questione di attimi. E di ritorno alla terra. Il trifolau si china, a volte addirittura si sdraia per terra, scava con le mani e con una piccola zappa, tocca le radici degli alberi. E’ un dialogo muto con la natura, quasi una danza dal sapore antico: uomo, cane e bosco sono un tutt’uno, ognuno con un ruolo ben definito. Poi, data una piccola ricompensa al cacciatore a quattro zampe, si ricomincia.
Talvolta, il racconto di Marco si fa amaro. Ultimamente, i boschi stanno cedendo il posto ai vigneti e ai noccioleti e spazio per i tartufi ce n’è sempre meno. Senza contare i danni provocati dall’assenza di neve in inverno e dalle estati sempre più calde e asciutte. Ciononostante, mi dice, di cercatori ce ne sono sempre di più. Con tutte le autorizzazioni e le carte bollate del caso, ma spesso senza la passione che qui si è tramandata di generazione in generazione. Per molti è un fatto economico, non culturale. E per me, che le Langhe le ha conosciute tardi ma le ha amate dal primo istante, questo è triste. Andare per tartufi è stata per me un’autentica epifania: è un’esperienza da vivere con tutti i sensi e con il cuore, è un modo per conoscere sinceramente un angolo d’Italia fra i più affascinanti.
E, da ultimo, mi piace ricordare che i tartufi non si possono coltivare. Ci hanno provato, è vero, ma pare che i risultati siano abbastanza modesti. Perché questi funghi ipogei fanno un po’ come pare a loro. Impiegano un anno a farsi e pochissimi giorni a disfarsi, se ne stanno solo presso gli alberi che piacciono a loro e amano la loro terra al punto che, appunto, le loro spore non attecchiscono in terreni anche molto simili. Prodigio della natura, indubbiamente. Io trovo che sia un invito: siamo noi che dobbiamo andare a cercare i tartufi là dove sono. Anche a costo di un po’ di sana fatica.