Una delle icone di Budapest è il Ponte delle Catene, cui fanno da guardia dei possenti leoni cui manca, pare, la lingua! Perché? Una risposta vera non c’è, ma la storia merita comunque di essere raccontata.
Budapest è bella ed elegante. Un’anziana signora con qualche ruga, ma con un fascino da fare invidia alle ventenni. E’ una dei mie città favorite e adoro percorrerla a piedi, vagare senza meta e lasciarmi stupire dai dettagli. Sembrerebbe quasi un controsenso perché chiunque ci sia stato può testimoniare come sia caratterizzata da strutture imponenti. Basterebbe citare la sede del Parlamento e la basilica di Santo Stefano, ma anche i poderosi ponti che congiungono le due rive del Danubio. Fra questi merita una menzione il Ponte delle Catene. Non solo perché è celeberrimo, ma anche perché spiega proprio quel che intendo dire di Budapest: la monumentalità non impedisce di ammirare i dettagli.
E quali sono i dettagli del Ponte delle Catene? A dirla tutta, già il nome suona un po’ bizzarro. Alla parola “catene” non sono pochi i visitatori italiani che domandano se vi avessero incatenato qualcuno o se un tempo lì vicino non sorgesse un carcere. In realtà no. Il Széchenyi Lánchíd (questo il suo nome in Ungherese) è semplicemente un ponte sospeso a catene, ovvero un ponte sostenuto da catene in ferro e non da funi. Di fatto, si tratta dunque della prima versione dei ponti sospesi moderni: a partire dal XIX secolo, da materiali quali legno e pietra ci si rivolse al metallo. E questo portò un indubbio vantaggio, cioè la possibilità di oltrepassare fiumi molto larghi. Non a caso, il Ponte delle Catene vanta l’invidiabile record di essere il primo ponte fisso della capitale ungherese, dove il Danubio è largo più o meno 300 metri.
Chiarita la questione del nome, anche la sua storia riserva qualche dettaglio curioso. Innanzitutto, i due progettisti erano omonimi ma non parenti. Il Ponte delle Catene si deve infatti alla perizia di William Tierney Clark (inglese) e di Adam Clark (scozzese), che utilizzarono, modificandone la scala, il progetto del Marlow Bridge (che in effetti gli somiglia parecchio). Se il promotore dell’iniziativa fu il conte István Széchenyi (donde il nome in ungherese), il principale finanziatore fu il greco Georgios Sinas, banchiere ed imprenditore, che ben capiva l’interesse strategico di unire Buda con Pest. Sempre perché in passato erano molto più moderni di quanto noi vogliamo ammettere: confini o meno, si viaggiava, si esportavano tecnologie, si chiamavano ingegneri provenienti da altri paesi e non ci si stupiva troppo se uno straniero, per evidenti fini commerciali, si lanciasse nella titanica impresa di sponsorizzare un’opera come il Ponte delle Catene.
Per realizzare il Ponte delle Catene ci vollero dieci anni (dal 1839 al 1849). Pare che alla sua inaugurazione, Adam Clark fosse talmente sicuro del fatto suo da fare una scommessa: se qualcuno avesse trovato una qualche imperfezione, lui si sarebbe tuffato dal ponte. La leggenda narra che qualcuno si avvide del fatto che i leoni posti all’imboccatura fossero privi della lingua, costringendo Clark al fatidico bagno nel Danubio… non esiste prova di ciò, tanto più che le poderose sculture furono collocate solamente nel 1853.
Tutto qui? Non proprio perché le lingue dei leoni, in effetti, fecero perdere la pazienza a qualcuno. Ma anche in questo caso è difficile distinguere realtà e fantasia. Si narra infatti che l’apprendista ciabattino Jakab Frick si avvide della dimenticanza e cominciò a diffondere la notizia in città. Figuratevi la reazione di János Marschalkó, cioè lo scultore! Oltre a smentire l’illazione (perché pare che la lingua semplicemente non sia visibile), accompagnò personalmente allo zoo alcuni detrattori per far loro constatare la somiglianza della sua opera con gli originali in carne e ossa. Scommise addirittura 500 fiorini per dimostrare che non è possibile vedere la lingua dei leoni quando assumono la stessa espressione dalle sue sculture. Un giornale locale dell’epoca ci informa che la scommessa fu vinta e la somma destinata in beneficienza.
Ma siccome la calunnia è un venticello, la leggenda non cessò mai di passare di bocca in bocca. Addirittura si sussurra che il povero Marschalkó per la vergogna si suicidò gettandosi proprio dal ponte. Nulla di più falso: l’artista, peraltro assai quotato in patria, morì nel suo letto diversi anni dopo. Si racconta che, non senza una buona dose di humour, solesse rispondere a chi gli chiedeva conto della sua presunta dimenticanza: “che il Cielo voglia che la lingua di Vostra moglie sia come quella dei miei leoni!”.
E bravo Marschalkó! Ché tanta volte una risposta pronta e un po’ di ironia valgono mille spiegazioni a chi proprio non ne vuol sapere di ascoltare.