Oggi non scrivo di viaggi né di luoghi che mi hanno riempito il cuore. Come tutti non mi muovo da mesi, ma i pensieri corrono veloci sotto il cielo di Lombardia.
E’ domenica, piove e compio pure 40 anni. E per non intristirmi, visto che il volo in parapendio a Zermatt è rimandato a data da destinarsi e anche gli amici è meglio frequentarli con parsimonia, scrivo. Non per noia, ma perché sono stanca. Francamente, da lombarda sono stanca. E mai mi sarei aspettata di dover affermare qualcosa del genere. Mio nonno veniva da Palermo e mia nonna da Cuneo, gli altri due erano lombardi (per quanto il loro cognome originasse dalla dominazione spagnola del Seicento). Io mi sono sempre detta, e con orgoglio, europea. Poi è arrivato il virus ed è stato capace di cambiare pure la percezione della mia identità.
Non è facile spiegare quel che provo. Appartengo a quella generazione (forse l’ultima) che a scuola ha avuto l’obbligo e il piacere di studiare le regioni d’Italia. Senza dimenticare il Risorgimento! Quante volte la maestra ha spiegato a noi bambini l’espressione di D’Azeglio “Abbiamo fatto l’Italia. Ora si tratta di fare gli italiani.”? Per noi c’erano la Puglia, l’Umbria e la Sardegna, ognuna con le sue particolarità, ma comunque legate da un invisibile filo. Lo dico a posteriori, d’accordo. Ma se penso al sussidiario e alle lezioni di storia e geografia, l’idea che mi rimane è proprio questa. L’Italia è una, è bella e gli italiani (che erano tali anche prima di avere uno Stato tutto loro) si apprezzano nelle loro particolarità.
Poi in Italia sono successe tante cose. Anche a me, tutto sommato. Di alcune, in tutta onestà, non me ne sono accorta, ma si vede che ero impegnata a viaggiare in giro per il mondo. Io non ricordo, ad esempio, di quando la nostra Repubblica da parlamentare divenne semi-presidenziale o di quando le regioni furono proclamate Länder alla tedesca maniera. Sono sicuramente io ad avere vuoti di memoria, ma la legge per l’elezione del premier o la fondazione della Repubblica Federale Italiana me le sono perse. Scusate, invecchio anche io e a 40 anni qualcosa può sfuggire.
Ma andiamo avanti. Arriva il coronavirus. Brutti e cattivi questi cinesi. Che si tenessero il loro virus. Basta sospendere i voli aerei e non andare nei ristoranti etnici. Tutto risolto? Mica tanto. Il virus si manifesta, misteriosamente, nella ridente Codogno. E quel dì gli italiani hanno scoperto non solo l’esistenza di tale luogo, ma anche la sua ubicazione geografica: la Lombardia. Il bailamme capitato da lì in poi non sto a raccontarlo che tanto l’avete vissuto pure voi. Quindi facciamo un salto nel tempo e arriviamo ad oggi.
Al 7 giugno 2020, un solo dato sembra certo: in Italia va tutto bene tranne che in Lombardia. Ne consegue che è meglio non visitare la suddetta regione e, ancora più importante, che i lombardi se ne devono stare a casa loro. Va bene. Parafrasando quel che ha scritto qualche giorno fa la mia amica Francesca, di bei posti qui intorno ce ne sono a bizzeffe. Undici siti UNESCO, Alpi, Prealpi, città d’arte, laghi che il mondo ci invidia. Posso accontentarmi.
Però mi chiedo: essere nata in Lombardia fa parte del pacchetto “peccato originale” di cui mi parlavano a catechismo? Eva era lombarda e non ce l’avevano mai detto? O forse era il serpente tentatore ad essere di Milano? Perché questa mi sembra, sotto sotto, l’opinione che serpeggia in mezza Italia. Certo, a pensarci bene e a studiare un po’ la storia potevo arrivarci da sola: qual è il simbolo del capoluogo lombardo? Il biscione visconteo, che poi se lo sono accaparrati un po’ tutti, Alfa Romeo, Inter e Fininvest comprese. Quindi il problema è questo: siccome Eva (forse anch’ella padana) cadde in tentazione a causa di strisciante animale milanese, allora in tempo di Coronavirus i lombardi hanno da pagare.
Perché a parte quelli che ancora danno credito alle più strampalate teorie, per i quali provo una gran pena, gli altri italiani che guardano alla Lombardia come a un nemico pericolosissimo non li tollero più. E, ancora meno, tollero quelli che pontificano sulle colpe di questo o quell’assessore, di come ha fatto bene una regione e di come sono stati incapaci da un’altra parte. Non sopporto più le pseudo-inchieste giornalistiche per dimostrare i ritardi, le inadeguatezze, l’impreparazione di una classe dirigente. E badate bene: il mio sentimento non ha nulla a che vedere con una questione di orientamento politico. Non fosse altro per il fatto che, credo, siamo tutti nella stessa barca. E a remare l’uno contro l’altro, ci stanno facendo solo un gran male.
La mia repulsione nasce proprio da questo baccano. Io vorrei solo domandare ai miei connazionali: secondo voi, qui in Lombardia, come ci dovremmo sentire? Ma non perché non ci vogliono a fare il bagno a Rapallo. A quello penseremo poi, visto che abbiamo ancora qualche questione da risolvere. Ma come ci dovremmo sentire in balia di un sistema che di acqua ne ha fatta parecchia mentre paventano la “seconda ondata”? Come ci dovremmo sentire mentre cerchiamo di raccogliere i cocci delle nostre esistenze, mentre facciamo la conta dei morti e di chi a fatica è sopravvissuto? Come ci dovremmo sentire mentre ci chiediamo perché i contagi calano sì, ma meno di quanto sarebbe stato ragionevole sperare? Come ci dovremmo sentire sapendo che è stato bello disegnare arcobaleni, cantare dai balconi e dirsi italiani finché non si è avuto nulla di meglio da fare, ma che, all’atto pratico, era solo un’immensa bugia?
Noi ce ne stiamo qui, sotto il tiro incrociato di quei giornalisti che dalla balera televisiva di Milly Carlucci saltabeccano fino a Palazzo Lombardia e di quei politici che non hanno nemmeno il coraggio di dire “ho fatto quello che ho potuto, il che purtroppo non è stato abbastanza”. Ce ne stiamo qui a rimboccarci le maniche e ad arrangiarci come abbiamo sempre fatto. Ce ne stiamo qui a turarci le orecchie e a sperare che, in qualche modo, ne usciremo. Comunque tranquilli: al momento, non sento così forte l’esigenza di spostarmi, fare la turista e, sia mai, infettare una nazione intera. Mi godo i miei laghi e va benissimo così.
2 commenti
Sono una collega torinese di origini valsesiane (sicuramente conosci la Valsesia) con marito milanese. Questo post avrei potuto scriverlo io. E lo condivido dalla sponda orografica destra del Ticino. Parlano, sentenziato, giudicano. Ed io li lascio parlare. La mia terra si è sempre saputa risollevare dal fango, anche quello vero, in silenzio, a colpi di badile, mentre nei talk show e nei bar si blaterava. Lo faremo ancora e lo farete anche voi. Noi veniamo chiamati “bogia nen”, ma non sanno nemmeno da cosa origina questo soprannome che credono essere spregiativo. Sono fiera di essere bogia nen, perché quando è il momento di affrontare il nemico non ce la diamo a gambe. E lo faremo anche adesso. Non ci muoveremo dalle nostre terre, che oggi più che mai hanno bisogno, soprattutto, di noi che sappiamo dare loro il giusto valore. In bocca al lupo collega della sponda sinistra. Emanuela
Grazie, Emanuela. So e sento che c’è un comune sentire. Mi dispiace per chi non lo capisce, ma alla fine quello non è un problema mio. Ce l’abbiamo sempre fatta, ce la faremo anche questa volta. Un caro saluto!