Visitando Bellagio, sul lago di Como, non si può che restare ammaliati dagli splendidi giardini di villa Melzi. Un sogno verde lasciatoci in custodia dalle passate generazioni. Che tutte le volte mi ispira una riflessione amara.
Chiunque conosca, anche per sentito dire, il lago di Como, ne associa il nome alle grandiose ville che vi si affacciano. Tradizione antichissima, questa, attestata sin dall’epoca di Plinio il Giovane, che di dimore sul Lario ne aveva ben due. E, non a caso, uno dei tour più richiesti dai visitatori provenienti da ogni dove è proprio quello che consente di scoprire storia e, ahimè, gossip delle ville. Alcune di queste sono normalmente aperte al pubblico e, coronavirus permettendo, mi capita spesso di guidare i miei amati visitatori in percorsi affascinanti, dove arte, storia e natura si fondono perfettamente.
Come ho dichiarato più volte, amo il mio lavoro. Dunque sono legata, con pochissime eccezioni, a tutti i luoghi che frequento per motivi professionali. Però ci sono quelli per me speciali. E di solito lo sono non solo e non tanto in virtù della loro bellezza o della loro storia, ma soprattutto perché mi permettono di andare oltre, di riflettere e di aggiungere valore alla mia umile esistenza. Uno dei migliori esempi che possa citare a riguardo è villa Melzi, che mi emoziona ogni volta che la vedo.
Villa Melzi ha poco più di due secoli, non è quindi particolarmente antica per gli standard del lago. Fu costruita per il duca di Lodi e vicepresidente della Repubblica Cisalpina Francesco Melzi d’Eril su progetto dell’archistar Giocondo Albertolli. Questi creò una facciata sobria ed elegante, che ancora oggi si distingue per la purezza delle sue forme. Un volume candidamente bianco, incorniciato dal verde del giardino e dalle sfumature blu del lago e del cielo. La si nota immediatamente, arrivando a Bellagio. Austera ed invitante insieme, posta in un dialogo perfetto con l’ambiente circostante. Alla realizzazione dei giardini concorsero l’architetto Luigi Canonica e il botanico Luigi Villoresi, già celebri per aver essersi occupati del parco della Villa Reale di Monza.
In realtà, solo i giardini sono visitabili in quanto l’intera proprietà è privata e la residenza è chiusa al pubblico. Ma bastano gli spazi aperti per innamorarsi di villa Melzi. Si tratta, infatti, di un giardino romantico, disposto su un morbido declivio che arriva sino alle rive del lago. La varietà botanica è assai notevole, quindi a specie tipiche della zona prealpina si affiancano sequoie, canfori, cipressi calvi e maestosi cedri. Non mancano, inoltre, i colori, garantiti da camelie, azalee e rododendri. Un altro tratto tipico del giardino all’inglese è rappresentato dai piccoli edifici che si trovano disseminati nella proprietà: le finte rovine, il padiglione orientaleggiante, la capanna africana, le grotte artificiali. Per non parlare dei reperti archeologici e della statua dedicata a Dante Alighieri (che pare abbia ispirato una sonata a Franz Liszt).
Insomma: un paradiso in terra, di un verde intenso e brillante. Anche se, devo ammettere, non è certo l’unico che si trova dalle mie parti. Già ve lo dicevo tempo fa: abito a Varese, la città-giardino. E allora che cos’ha di tanto speciale il giardino di villa Melzi? Ora ve lo spiego. E per farlo devo tornare brevemente alla storia.
Diamo uno sguardo alle date: villa Melzi fu edificata fra il 1808 e il 1810, il giardino fu completato tra il 1813 e il 1815. E fin qui tutto bene. Peccato che Francesco Melzi d’Eril morì già nel 1816. Aveva 63 anni. Certamente per i parametri odierni era ancora giovane, ma all’inizio dell’Ottocento l’aspettativa di vita era un po’ differente. Tanto per dare un’idea, Giovanni Battista Sommariva, “dirimpettaio” del Melzi in quanto proprietario di villa Carlotta, lasciò questo mondo a 64 anni. Posso anche immaginare che entrambi sperassero di campare più a lungo, ma ritengo probabile che entrambi avessero nella loro mente un orizzonte temporale un po’ più ristretto del nostro.
Dunque, Francesco Melzi decise di farsi creare il suo buen retiro nella fase decisamente discendente della sua vita. E passi per la villa che, come ogni edificio, una volta pronta poteva essere abitata. Il giardino era ed è un affare più complicato. Perché una volta che si sono approntati sterri, deviazioni di corsi d’acqua, messa a dimora di piante ed arbusti, si è di fatto a metà dell’opera. Poi bisogna aspettare. E, a volte, anche a lungo. Pensate solo alle sequoie, che impiegano secoli per diventare adulte. Di più: il giardino è ora splendido perché è “maturo”, solido, omogeneo pur nella sua grande varietà. Sicché la percezione che ne abbiamo noi oggi è di gran lunga più appagante di quella che si poteva avere all’inizio della sua storia. E credo che il duca di Lodi, anche augurandosi lunga vita, ben sapesse che non avrebbe mai visto al colmo della bellezza né le sequoie né il parco tutto.
E’ proprio questo che mi emoziona ogni volta. Il giardino è stato pensato per le generazioni future, per quelli che Francesco Melzi d’Eril non avrebbe mai conosciuto. Non escludo che pensasse alla sua progenie più che ai turisti che affollano Bellagio. Ciononostante, anche in virtù del fatto che i giardini si ammirano anche dal lago, il duca di Lodi pensava al godimento dei posteri più che al suo.
E tutte le volte che ci ragiono, non posso far a meno di domandarmi quanti, ai nostri giorni, agiscono nella stessa ottica. Ci siamo abituati ad assicurarci il nostro futuro e, nella migliore delle ipotesi, quello dei nostri figli. Ma chi, davvero, pensa ai nipoti che verranno al mondo fra due o tre secoli? Andiamo nello spazio e studiamo l’infinitamente piccolo, ma forse abbiamo perso di vista la dimensione temporale e, ancora di più, quella del fare per il mondo che non ci apparterrà. Visitare i giardini di villa Melzi è per me un invito ad allargare l’orizzonte. Quello visivo, bellissimo, sul lago di Como. E quello sull’umanità. Perché vorrei sperare che non siamo monadi, senza porte né finestre, ma nani sulle spalle dei giganti.