“Non toccare, grazie”. Un monito banale, se esposto all’inizio di una mostra. Forse non tanto, se gli organizzatori hanno sentito l’esigenza di affiggerlo.
Un tardo pomeriggio di metà ottobre a Carona, splendido borgo nei pressi di Lugano. Con alcuni amici visito una mostra di patchwork contemporaneo, allestita da altri due amici. Siamo gli ultimi avventori, quindi abbiamo la sala e le opere a nostra disposizione. Possiamo ammirare, chiedere spiegazioni, scambiarci pareri. Alcune opere sono di una delicatezza non esprimibile a parole, i dettagli sono preziosi e fragili, le ore di lavoro e la passione sono evidenti.
Ovviamente, nessuno di noi tocca nulla. Ci si avvicina quel tanto che basta per apprezzare le minuzie, si registra con la mente e ci si lascia emozionare.
Poi chiacchieriamo con Paola, l’artista, sulle mostre appena concluse e sui futuri impegni. Ed è così che ci racconta di un’esibizione a cui ha preso parte, dalla quale è tornata piuttosto provata. Infatti, per quattro giorni ha dovuto trascorrere gran parte del suo tempo a pregare i visitatori di non toccare. E così scivoliamo verso un altro argomento, in apparenza banale, ma che forse non lo è poi tanto.
Maleducazione è la prima parola con la quale commento. E Paola concorda. Però poi mi vengono in mente diverse situazioni professionali nelle quali mi è capitato lo stesso. Non solo e non tanto con i bambini, ai quali spiego sempre perché bisogna “non toccare”, ma con adulti che spesso mi hanno risposto con assunti disarmanti. “E’ stato qui mille anni, si deve rompere proprio oggi?” è quello che cito di solito. E, purtroppo, è una storia vera.
Sempre mi sono chiesta dove nasca l’esigenza tattile più che l’incapacità di fermarsi un secondo prima. Perdonate la sociologia da due soldi, ma la risposta che mi sono data ha a che vedere con qualcosa di ancestrale, con la necessità di fare esperienza, è il caso di dirlo, di prima mano. Si tocca per capire come è fatto, se un materiale è ruvido o liscio, per avere una sensazione. Temo lo si faccia senza nemmeno accorgersene.
E forse agiamo, inconsciamente, in contrasto con tutta la virtualità che ci ha allietato (o alienato?) negli ultimi anni. Non sfogliamo più un libro, tanto per fare un esempio. Non scriviamo quasi più con la penna (e con buona probabilità non in corsivo). Non abbiamo più bisogno di andare in un posto per vedere com’è fatto. Generalmente, usiamo poco le mani perché siamo circondati da apparecchi che impastano, tritano, lavano (e guai se non ci fossero). Mio padre, geometra, un tempo misurava con la bindella; ebbene, oggi esiste un comodo puntatore laser. Precisissimo.
Per converso, temo succeda anche il contrario. Le mani di chi hanno tanto lavorato non si soffermano, scorrono veloci e avide, vanno nel particolare perdendo l’insieme.
E le mani si ribellano. Fanno esperienza, cercano di capire, di trattenere, di ritrovare un contatto. Là dove non si può. Creando stizza in chi è avvezzo alle mostre e al bello. Suscitando però anche pena, perché è come se questi visitatori incauti fossero bambini intenti a scoprire il mondo per la prima volta. Verrebbe quasi da chiedersi dove sono stati fino ad oggi, che cosa abbiano potuto veramente ammirare e apprezzare, se mai qualcuno abbia spiegato loro come toccare con gli occhi e ascoltare con il cuore.
Perché credo che, in fondo, di questo si tratti. Aprire il cuore, allargare l’orizzonte mentale, entrare nei panni di chi ha lavorato, esercitarsi a rispettare. Tutto ciò si impara, lasciando da parte l’io bambino e ritrovandosi adulti capaci di assaporare davvero il bello che si manifesta di fronte a noi.
Ringrazio Paola per aver stimolato queste riflessioni e per avermi offerto l’opportunità di conoscere una tecnica a me ignota. E ringrazio gli amici che rendono allegre e festose le scorribande alla scoperta dell’arte.